LA NUOVA GUERRA E L’OCCIDENTE


— Foto: Enzo Rutigliano.

 

   — Fonte di questo articolo:  Enzo Rutigliano, « La nuova guerra e l’Occidente », Quaderni di Sociologia, 39 | 2005, 5-20.

                                                                                            La nuova guerra

Se si comincia ad applicare una tattica non ortodossa ed essa non suscita una reazione, si vincerà. (…) Secondo coloro che studiano la forma, non vi è alcuna cosa che non abbia un nome; e tra le cose che possono essere nominate, non vi è nulla che non possa essere sconfitto.  Sun Pin, Metodi militari.

1Il terrorismo, così come esso si è venuto manifestando negli ultimi anni, non è altro che la guerra condotta con altri mezzi. Quali mezzi? Quelli ipertecnologici che la globalizzazione mette a disposizione unitamente a risorse arcaiche, come l’attivazione di forti elementi mitici quali il richiamo al califfato, a una versione fortemente integralista e messianica della religione e il superamento della concezione della lotta in nome delle classi sociali e delle nazioni nel dichiarare la guerra. Elementi mitici che attivano simboli; e sappiamo che una caratteristica delle nostre società occidentali – almeno da mezzo secolo a questa parte – è la maggiore sensibilità ai simboli. Sensibilità che viene potenziata sfruttando abilmente l’interconnessione dei sistemi informativi, che a loro volta potenziano l’efficacia e il valore dei simboli (Pelanda, 2005, 103). Bisogna tuttavia dire preliminarmente che il connubio tra ipertecnologia frutto del moderno e l’attivazione di elementi arcaici evidenzia un processo di occidentalizzazione che si arresta all’uso superficiale della tecnologia che l’Occidente produce senza che vengano adottati quei principi che quella tecnologia hanno reso possibile, i processi sociali, politici ed economici che il moderno implica. Anzi tutto questo è paventato come contaminazione della purezza, della lettera della religione, etc.

2Paradossalmente, e sia detto qui per inciso, queste caratteristiche nuove che la guerra assume per mezzo del terrorismo sono molto simili a ciò che Gaston Bouthoul classifica come «Guerra primitiva»: «Militarmente, consiste in imboscate e razzie: si differenzia pochissimo dallo stato di pace e obbliga soltanto a una vigilanza continua» (Bouthoul, 1982, 483). Lo spazio di questa guerra è definito da una parola greca, ancora una volta, il δεινόν, il rischio. Paradigma efficace del nostro tempo. «Cosa hanno in comune avvenimenti tanto diversi quali il disastro di Cernobyl, gli sconvolgimenti climatici, il dibattito in materia di manipolazione genetica, la crisi finanziaria dei paesi asiatici e la minaccia attuale degli attentati terroristici? Rivelano tutti una discrepanza tra la lingua e la realtà, una discrepanza che io chiamo “società mondiale del rischio”» (Beck, 2003, 7). Questo rischio era stato già individuato come operante dalla fine del conflitto tra i due blocchi e favorito dalle nuove tecnologie.

3Per due autori cinesi, Qiao Liang e Wang Xiang Sui (Liang-Xiang Sui, 1999) non solo il modo di fare la guerra era radicalmente cambiato, bensì il concetto stesso di guerra. Infatti essi sostengono: la guerra non è più combattuta su un campo di battaglia da due eserciti contrapposti, ma essa è senza quartiere, si combatte su un campo di battaglia che, di fatto, coincide con il mondo e con le attività che in questo accadono. E gli strumenti sono quelli militari ma, anche, economici e scientifici. Da parte loro, i radicali musulmani, vi aggiungono quelli arcaici evocatori di miti.

4Ne risulta una situazione destabilizzata, di continuo rischio, che diventa così parte della condizione della nostra esistenza. Mentre per Ulrich Beck la minaccia nel secolo scorso era costituita dal fascismo e dal comunismo, all’inizio del ventunesimo secolo, a minacciare i presupposti della società aperta è il terrorismo onnipresente che determina una percezione del rischio generalizzato. Il δεινόν, oltre a essere un’arma formidabile, è lo specchio della debolezza delle società molto evolute, dove risulta impossibile il controllo degli obiettivi: «Più le società sono moderne ed evolute, più sono democratiche, e meno sono disposte a rispondere ad attacchi di questo tipo. Perché sono più fragili a causa della tecnologia avanzata, delle grandi reti di trasporto, di comunicazione, ma anche perché soffrono di una fragilità che deriva proprio dalle regole democratiche» osserva Eli Karmon, senior analist dello International Institute Policy for Counter-Terrorism.

5Non c’è dubbio che il guasto peggiore che il terrorismo internazionale infligge all’Occidente è l’alterazione del fragile equilibrio che le democrazie occidentali devono preservare e cioè il rapporto tra libertà e sicurezza. È proprio qui l’obiettivo dichiarato del terrorismo, della nuova guerra globale, costringere l’Occidente ad alterare questo equilibrio a favore della sicurezza e dunque a rinnegare i propri principi che sono ciò contro cui il terrorismo di matrice islamica lotta e di cui teme la contaminazione. Il rischio genera richieste di sicurezza e quest’ultima richiede un abbassamento del tasso di democrazia.

6Ma perché le democrazie occidentali sono così penetrabili ed esposte al rischio causato da piccoli gruppi e addirittura da singoli individui? Sostiene Carlo Jean: «Le nuove tecnologie da un lato e l’interconnessione delle società e delle economie dall’altro consentono a piccoli gruppi e a singoli individui di disporre di una capacità distruttiva che un tempo era posseduta solo dai governi. Quanto più sono organizzate – per accrescere la loro efficienza – tanto più le società e le economie sono vulnerabili. Si tratta di una “vulnerabilità da rigidità”, diversa da quella “da labilità” derivante dalla scarsa organizzazione di un sistema, poco efficiente e facilmente penetrabile dall’esterno. Essendo più vulnerabili, società ed economie moderne si trovano sottoposte a un maggior potenziale di danno, e quindi a maggiori rischi rispetto alle moderne minacce – soprattutto a quelle del terrorismo suicida. Non costretti a predisporre vie di fuga dopo gli attentati, i kamikaze o shahid (martiri) sono difficilmente intercettabili. La sicurezza tende a ridurre il danno potenziale derivante dal loro materializzarsi; lo fa sia rafforzando i confini e i meccanismi di controllo interno del sistema, sia attribuendo a quest’ultimo una maggiore flessibilità e quindi una capacità di assorbire dinamicamente gli shock. Rafforzamento dei confini e dei controlli e aumento di flessibilità comportano un costo: la diminuzione dell’efficienza e – fatto particolarmente grave nelle società democratiche – delle libertà e della privacy dei cittadini» (Jean, 2005, 19). È la maledizione della democrazia quella di doversi difendere dai suoi nemici rischiando di mettere in discussione se stessa: se si difende tenendo fermi i suoi principi di tolleranza e diritti dell’uomo fa il gioco dei suoi nemici e spesso soccombe. Se, al contrario, rinuncia ai suoi principi rischia di suicidarsi immolandosi alla richiesta di sicurezza. È una condizione che consuma la sostanza stessa e dalla quale si esce avendo comunque sacrificato qualcosa della propria identità.

7Contro chi questa guerra? Contro l’Occidente, contro i suoi valori. Gli atti terroristici di matrice islamica sono attuati in nome di una visione della storia dualistica nel senso di due visioni del mondo contrapposte, in nome di valori opposti. La lotta è contro i valori dell’Occidente: democrazia, libertà, diritti inalienabili dell’individuo, diritti delle donne, etc. Soprattutto perché la globalizzazione potrebbe diventare uno strumento di diffusione di questi valori nei paesi musulmani, contagiandoli con lo stato di barbarie in cui i paesi occidentali vivono. Questo stato è inteso globalmente come jahilliya. I radicali musulmani credono che sia dovere del buon musulmano annientare questo mondo verso il quale non hanno rivendicazioni né politiche né economiche da fare e, dunque, con cui non vi è trattativa possibile. A questa globalizzazione minacciosa per l’integralismo islamico si contrappone la globalizzazione del terrore che, tra l’altro, viene usata in modo da sfruttare la globalizzazione mediatica: ogni attentato terroristico viene attuato in modo da sovrapporsi a un grande evento mediatico (g8, Elezioni politiche, etc.).

8Naturalmente, la dichiarazione di guerra all’Occidente dichiarata da una entità interclassista e sopranazionale come Al Islam rivela le nuove forme e i contenuti di questa guerra. È una entità politico-culturale fortemente conservatrice che laddove è riuscita a insediarsi in senso politico ha prodotto la morte della cultura intesa come dibattito che produce nuove idee sostituendovi al suo posto una cultura della morte, quella in cui vengono formate le armi di questa guerra: gli uomini votati al martirio suicida. Questa entità politico-culturale è il fondamentalismo islamico che, come ogni fondamentalismo religioso, è basato su tre elementi tipici, appunto, fondamentali: la verità assoluta e immutabile del testo; la astoricità di quest’ultimo e la superiorità delle prescrizioni e delle leggi religiose su quelle fatte dagli uomini. Il che significa che qualunque legge emanata da un parlamento non può essere valida se contrasta con le leggi o le prescrizioni coraniche.

9Nel mondo islamico queste posizioni fondamentaliste, seppure minoritarie, vengono da lontano: «Da almeno due secoli il mondo musulmano è attraversato da movimenti che cercano di ristabilire l’ordine ideale della Città islamica in cui religione, società e politica (din-dunya-dawla) erano strettamente legate tra loro secondo un preciso ordine gerarchico. Questo mito di fondazione trae origine dall’esperienza storica dell’età dell’oro musulmana, quella della comunità del Profeta e dei suoi primi successori» (Pace e Guolo, 1998, 35). L’Età dell’Oro del mondo musulmano è l’elemento mitico a cui al-Qaeda fa riferimento.

10In ogni fondamentalismo la morte, la sua cultura, ha un posto preminente e questa cultura della morte, per altro comune come esaltazione a tutti i fascismi realizzati, ha una data d’inizio precisa: Beirut, 1983, quando un attentatore suicida, rimasto per altro sconosciuto, si fece saltare insieme al suo camion imbottito di tritolo contro l’ambasciata americana. Fu subito chiara l’enorme forza simbolica del gesto senz’altro maggiore del danno causato tanto che gli americani decisero di ritirarsi dal Libano. Da allora questo uso strategico dell’attacco suicida è diventato l’arma efficace della guerra globalizzata e senza quartiere all’Occidente e ai suoi valori. E, tutto questo, in un mondo cambiato dalla globalizzazione che prevede i sistemi socio-economici interdipendenti articolati in strutture e procedure standardizzati per aumentare l’efficienza che a sua volta è richiesta dalla ipercompetitività globalizzata.

11In questa nuova forma che la guerra ha assunto possiamo esperire nella nostra stessa quotidianità che vecchie categorie come noi e loro, dentro e fuori, locale e globale, sono ormai obsolete, non hanno più valore euristico. Anche la distinzione tra guerra e pace è ormai superata dal carattere militare di interventi di peace keeping e dal carattere umanitario di interventi militari. Tutto è comunicante e dunque anche il rischio, nella fattispecie malattie infettive, crisi finanziarie, terrorismo. Queste fonti di rischio si influenzano reciprocamente. Sono sistemiche: terrorismo in medio-oriente che genera guerra in Irak, che genera aumento del prezzo del greggio, che genera crisi economica in Europa, che genera effetti psicologici che aumentano la percezione del rischio, l’esposizione al valore dei simboli (Beck, 2003, 2005). E sono globali, il terrorismo è un rischio globale. Paradossalmente, anche ciò che si oppone alla globalizzazione, i movimenti no global, hanno un carattere globale, internazionale.

12In tutto ciò il nuovo terrorismo si differenzia nettamente da ciò che noi intendiamo con questo concetto, nelle sue varianti e determinazioni dalla Norodnaia Volia agli anni ottanta del secolo scorso. Sappiamo che nella sua prima apparizione (distinta cioè dall’omicidio politico – per esempio quello di Cesare) esso si manifesta come vendetta attuata da un gruppo di vendicatori che agiscono in nome di una classe sociale reietta, un eccidio etc. (lo zar Alessandro, Umberto i, etc.). Oppure la loro azione si rivolge contro una classe e i suoi simboli (le bombe degli anarchici individualisti nei ristoranti parigini alla moda) spargendo il terrore.

13In un secondo momento il terrorismo si configura come mezzo per cacciare coloro che si ritengono invasori. In questa forma e con queste finalità esso agisce per tutto l’Ottocento in Europa (Gavrilo Princip a Sarajevo, gli attentati in Irlanda o nei paesi Baschi, etc.). Nel Novecento il terrorismo diventa politico nel senso che rappresenta una classe sociale o che intreccia questa sua rivendicazione con aspetti nazionalistici o di decolonizzazione. Bisogna a questo punto dire che questi mezzi non sono solo usati da minoranze verso governi, non avendo altri mezzi per dispiegare una lotta politica di classe o nazionalistica. Di questi mezzi si impadronisce il potere e li usa nella forma dello spargere terrore, insicurezza e intimidazione oppure per suscitare bisogno di ordine e dunque richieste di governi autoritari.

14È necessario a questo punto dire che queste distinzioni appena accennate sono idealtipiche e che, dunque, storicamente vi sono terrorismi che mescolano le forme che abbiamo delineato. E, sebbene queste forme sussistano ancora oggi, esse non hanno nulla a che fare con ciò che continuiamo a chiamare terrorismo di matrice islamica, al-Qaeda, prima e dopo l’11 settembre, e che, invece, è il modo della guerra dopo la guerra tra nazioni o la guerra civile tra le ideologie, le classi, etc., che assume un forte valore come fattore comunicativo, quasi neurotrasmettitore della percezione del rischio e della vulnerabilità come si è visto nell’episodio delle torri gemelle (Fiorca, 2005).

15In questo modo, la guerra tradizionalmente intesa, finisce quindi di essere «la pietra miliare che indica la svolta degli avvenimenti» (Bouthoul, 1982). La sua metamorfosi, invece, la sua trasformazione in terrorismo diffuso diventa la pietra miliare che prefigura l’epoca che viene. L’epoca in cui la vecchia guerra è finita ed è iniziata una guerra senza fine. E prefigura anche la nuova decisiva contrapposizione che supera quella tra nazioni tipica dell’Ottocento e quella tra ideologie tipica del Novecento, ponendo di fronte due concezioni del mondo, della vita: due civiltà. Naturalmente non tutti sono d’accordo con questa definizione del terrorismo come la nuova forma che la guerra ha assunto. Per molti, la maggioranza degli studiosi e osservatori, la guerra è ancora quella tra le nazioni, con le sue tragedie immani ma, anche, con aspetti, talvolta, di nobiltà. Nobiltà che faceva dire persino a Kant che «la guerra, se viene fatta con ordine e sacro rispetto dei diritti civili, ha in sé qualcosa di sublime». E, anche, molti sono contrari ad accettare l’idea dello scontro tra civiltà che, pur avendo un valore idealtipico e, per certi versi approssimativo rispetto alle realtà complesse delle contrapposizioni, ha però un valore euristico e maieutico, utile per un primo orientamento.

16L’analisi di Huntington va certamente accettata con molte riserve ma non respinta a priori come veniva respinta la peste descritta da Manzoni, per pura paura o esorcismo. Inoltre lo scontro di civiltà è precisamente il «programma» del terrorismo di matrice islamica. Certo, accettare lo scontro a questo livello vuol dire accettare il programma del network terroristico e, certamente, una strategia che gli si opponga deve assolutamente distinguere tra islam come religione e islam come civiltà versus civiltà e, però, non si deve ignorare che da parte di al-Qaeda lo scontro è visto e vissuto in questo preciso modo. Ignorarlo è altrettanto pericoloso che accettarlo. E, d’altro canto, l’idea di Terza guerra mondiale si è affacciata a livello di Columnists  solo dopo gli attentati alla metropolitana di Londra del luglio 2005.

17Coloro che avversano l’idea di uno scontro di civiltà e, dunque, l’idea stessa di guerra nella nuova forma, sostengono che non bisogna fare la guerra al terrorismo, bensì dare la caccia ai terroristi, come la si dà ai criminali. Accettare l’idea di uno stato di guerra legittimerebbe il terrorista dandogli uno statuto di partigiano seppure in una versione perversa. Ancora essi sostengono che lo stato di guerra significa riconoscere al terrorista gli stessi diritti che Carl Schmitt riconosce al partigiano fornendogli legittimità filosofica e giuridica anche se questa legittimità è giuridicamente impossibile. E, tuttavia, contraddittoriamente, il partigiano diventa, per il giurista del Terzo Reich, figura eroica e centrale della storia europea anche se in contrapposizione al «diritto di guerra classico, ed è indubbiamente un nome meritato. Stabilisce infatti chiare distinzioni – innanzitutto fra stato di guerra e stato di pace, fra combattenti e non combattenti, fra nemico e criminale comune. La guerra è condotta da Stato a Stato come una guerra di eserciti regolari, statuali, fra due depositari sovrani di uno jus belli, che anche in guerra si rispettano come nemici e non si discriminano vicendevolmente come criminali, cosicché una conclusione pacifica è possibile, anzi rimane perfino la normale, ovvia conclusione della guerra» (Schimtt, 2005, 19).

18Ma il problema è proprio questo, con questo nostro concetto di guerra, il «diritto di guerra europeo classico» non ha nulla a che fare e neppure il terrorista ha a che fare con il partigiano che ha un territorio che difende da un esercito invasore (la guerra partigiana in Unione Sovietica, in Francia o anche in Italia) seppure combattendo alle spalle di questo. Del resto lo stesso Schimtt individua come indispensabile alla sua definizione classica di partigiano il carattere che con Jover Zamora ha chiamato carattere tellurico. «Tale proprietà è importante per definire, a prescindere da ogni mobilità tattica, la posizione fondamentalmente difensiva del partigiano, il quale si snatura quando si identifica con l’aggressività assoluta di una ideologia tecnicizzata» (Schimtt, 2005, 32), carattere questo, precipuo, del terrorista di al-Qaeda. Questi non ha territorio, non ha un obiettivo politico, le sue rivendicazioni non sono negoziabili a Ginevra né altrove. Egli «combatte» ovunque diffondendo il terrore che è la sua arma efficace in nome di una civiltà contro un’altra. In nome del bene contro Satana. Non si può dunque considerare, come fa Schmitt per il partigiano, l’«ultima sentinella della terra» poiché non ha terra e, però, è vero e ancora valido il suo essere, questo sì, l’incarnazione dell’«inimicizia assoluta».

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Ulteriori notizie sulla fonte dell’articolo: 

 Notizia bibliografica digitale: Enzo Rutigliano, « La nuova guerra e l’Occidente », Quaderni di Sociologia [Online], 39 | 2005,      30 novembre 2015, consultato il 07 novembre 2020. URL: http://journals.openedition.org/qds/1008; DOI: https://doi.org/10.4000/qds.1008 – Autore: Enzo Rutigliano: Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale – Università di Trento

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